Questo articolo apre una serie che mira a studiare e commentare la presenza delle donne nel canone letterario italiano, provando ad affrontare la questione dai diversi punti di vista che si offrono: la storia, i manuali scolastici, l’editoria e la percezione dei lettori.


La letteratura è universale, non ha genere. E in un certo senso è così, perché parla dell’Uomo. Solo che l’Uomo, come spiega la filosofa politica Adriana Cavarero, è in realtà una parzialità nascosta, una combinazione “mostruosa”, eppure molto reale, di “uomo” come genere maschile e di genere umano. È l’uomo, al maschile, che diventa Uomo, umanità, e nella universalità della letteratura si specchia in se stesso. Qual è allora il posto delle donne, in questa universalità così particolare? A questo interrogativo ha cercato di rispondere la conferenza Women and the Canon (“Le donne e il canone”) tenutasi a Oxford a gennaio 2016, dove ho presentato i risultati di una ricerca (svolta in collaborazione con Valeria Riboli) sulla situazione delle scrittrici, degli scrittori e del canone in Italia, di cui ripropongo qui, in un’inchiesta in quattro puntate, alcuni dati e riflessioni.

Oggi è convinzione diffusa che non ci sia differenza fra le donne e gli uomini quando si parla di letteratura. Eppure, quando si guarda con attenzione, si scopre che nelle università come nelle riviste, nel marketing editoriale come nelle recensioni, la differenza – quantitativa e di trattamento – è macroscopica, e viene continuamente riprodotta, anche dalle generazioni più giovani. Come spiega Loredana Lipperini, questo sforzo di comprensione non riguarda «la necessità di inserire a forza libri scritti da donne nelle proprie liste di qualità pubbliche e private, ma il motivo per cui da alcune di quelle liste non appaiono titoli importanti di scrittrici». Si tratta dunque di tracciare una rappresentazione realistica del nostro sistema letterario, e comprenderne i valori e i meccanismi che producono e riproducono le gerarchie e le esclusioni.

Al contrario di Francia e Inghilterra, dove già nel Settecento, pur fra sprezzo e resistenze, alcune donne avevano accesso alla possibilità di scrivere, dopo la parentesi rinascimentale la presenza delle scrittrici nella letteratura italiana è un fenomeno recente. Delle difficoltà materiali e sociali che si interpongono fra una donna e la scrittura all’inizio del Novecento ha fornito un’avventurosa rappresentazione per esempio la Premio Nobel Grazia Deledda in Cosima (1937, postumo), dove la giovane protagonista ruba e vende di nascosto un vaso d’olio per pagare il francobollo che porterà una sua novella dalla Sardegna all’Italia, e dove la stessa ragazza, divenuta scrittrice, è tacciata di infamia dall’intero paese; così, Sibilla Aleramo in Una donna (1906) racconta degli stupri, delle percosse e del confino in casa subiti dal marito, dai quali si salva proprio grazie alla scrittura, salvo poi attirarsi con lo stesso libro una condanna pressoché unanime. Anche una volta superati gli ostacoli materiali, infatti, le donne che scrivevano erano spesso derise, sminuite o attivamente osteggiate dai letterati, ed emblematica rimane la rappresentazione della figura della scrittrice (riconducibile a Deledda) data da Luigi Pirandello in Suo marito (1911), dove il marito della protagonista è rappresentato come umiliato e schiacciato dalla gloria – ovviamente immeritata – di lei.

Dopo le prime, dure battaglie per la scrittura di Deledda e Aleramo, è con il secondo dopoguerra, con l’accesso delle donne alla sfera pubblica e l’inizio del cammino per la parità giuridica, che la schiera delle scrittrici si amplia e si rafforza: prendono la penna, fra le altre, Natalia Ginzburg, Amelia Rosselli, Anna Maria Ortese ed Elsa Morante. Potrebbe sembrare un fatto semplice e di poco impatto rispetto al canone, se non fosse che un’intera parte di popolazione, proveniente da una condizione materiale ed esistenziale radicalmente diversa dai soggetti che fino ad allora si erano espressi, acquistò per la prima volta la voce. Certo, si trovò a parlare in un linguaggio che non aveva creato, all’interno di un sistema di matrice maschile, di cui dovette subito imparare e osservare le regole, pena il ritorno all’esclusione, ovvero al silenzio. E molte scrittrici di quel periodo infatti scontarono sulla pelle e nella penna il conflitto inerente al proprio genere e all’atto di scrivere, prima di tutte Ginzburg, che ne Il mio mestiere (1963) dichiara: «Desideravo terribilmente di scrivere come un uomo, avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scrivevo. Facevo quasi sempre personaggi uomini, perché fossero il più possibile lontani o distaccati da me». Le parole di Ginzburg testimoniano una situazione ancora lontanissima da una anche solo teorica parità di dignità artistica fra uomini e donne. Ma rimaneva comunque il fatto senza precedenti di poter parlare, e infatti le prime scrittrici lavorarono con genialità alla manipolazione di forme e temi per poter esprimere la loro posizione nel mondo, scalzando donne angeliche e donne demoniache, donne simbolo della patria, del peccato, della tradizione, di una Natura sempre e comunque fuori dalla Storia.

Senza che siano in alcun modo riconducibili a un gruppo internamente omogeneo, le scrittrici di questo periodo rimescolano e mettono in discussione i generi tradizionali, in romanzi inclassificabili secondo le categorie invalse come Lessico famigliare di Ginzburg (1963), L’iguana di Ortese (1965) o La storia di Morante (1974). In più, queste scrittrici portano sulla pagina un punto di vista fino ad allora ignorato su temi come il sesso, la famiglia, il lavoro, l’oppressione, l’infanzia, la memoria, la maternità, la storia, la felicità. Non è, come si è detto, un punto di vista unico e coeso, una presunta “scrittura femminile”, ma una galleria di prospettive differenziate per classe, area geografica e ovviamente storia e indole personale, che hanno però in comune quel punto di partenza, l’essere al mondo come donne, e come donne chiamate per la prima volta a prendere parte a una storia, quella dell’Homo Fictus, fino ad allora raccontata solo da uomini. Il loro primo e inestimabile contributo alla letteratura è proprio di rendere evidente, e compensare, quella parzialità.

A questa prima fase segue poi una nuova, ampia generazione di scrittrici negli ultimi due decenni del Novecento, da Francesca Sanvitale a Dacia Maraini, da Fabrizia Ramondino a Bianca Pitzorno, fino ad arrivare al nuovo millennio con Vivian Lamarque, Michela Murgia, Melania Mazzucco, Igiaba Scego, Antonella Anedda, Benedetta Tobagi, e con la grande epopea napoletana di Elena Ferrante e la riscoperta dell’opera anarchica di Goliarda Sapienza. Questa crescita nel numero delle scrittrici ha portato, dagli anni ’80 in poi, a un generale ottimismo rispetto al superamento della disparità di genere in campo letterario, e a liquidare presto la questione come appartenente al passato.

Eppure, gli scrittori continuano ad essere sproporzionatamente rappresentati, mentre le scrittrici faticano ad entrare, e ancor più a rimanere, nel canone della letteratura italiana. E questo è il primo fatto che occorre stabilire, che a dispetto degli ottimismi di fine Novecento, le scrittrici rimangono ancora ai margini del canone letterario. Le ragioni sono molteplici. In larga parte gli uomini non leggono le scrittrici, e quindi non le recensiscono, antologizzano, inseriscono nei corsi universitari e nei manuali delle superiori. Anche quando vi si accostano, spesso lo fanno con un pregiudizio. Mentre la letteratura maschile è percepita come universale, quella femminile continua a venire rappresentata e sentita come, appunto, femminile, cioè rivolta alle donne, cioè parziale. E – il punto è fondamentale – la presunta parzialità femminile è considerata assiologicamente inferiore rispetto a quella che si crede l’universalità maschile. A ciò si aggiunge il credito con cui partono gli scrittori, i quali sono percepiti come appartenenti di diritto all’arena letteraria, mentre le scrittrici si trovano ancora a dimostrare, quasi vincendo un’aspettativa contraria, di meritarsi il diritto di parola.

Il problema non è, ovviamente, limitato alla letteratura, ma investe tutti i campi del sapere e del potere, con la costruzione continua di canoni e genealogie che inconsciamente quanto sistematicamente rimuovono o marginalizzano i contributi delle donne. Un processo a cui si contrappone, però, uno sforzo condiviso e continuo per ristabilire la loro presenza e riconoscere il loro lavoro. Solo nell’ambito umanistico, si possono citare per esempio la Società Italiana delle Letterate, quella delle Storiche e quella delle Filosofe, la casa editrice La Tartaruga, nonché le riviste, i blog e gli innumerevoli interventi di critica e teoria[i]. Uno sforzo che passa dalla presa d’atto essenziale che la letteratura ha sempre avuto un genere, quello dell’Uomo, e che questo genere sta lentamente cambiando, arricchendosi di differenze.

A che punto siamo, possiamo dunque chiederci, in questo processo? Qual è, oggi in Italia, il volto dell’Homo fictus? Nei prossimi interventi porterò alcuni dati per rispondere a questo interrogativo, guardando all’insegnamento nelle università e nei licei, all’editoria, alle riviste, e un approfondimento sui valori e sulle retoriche che orientano il dibattito, concludendo con la proposta di un corpus di scrittrici italiane del Novecento e dei loro contributi alla letteratura.


 

[i] Qualche consiglio di lettura essenziale: Laura Fortini, ‘Critica femminista e critica letteraria in Italia’, Italian Studies, Vol 65, 2, 2010. Zancan, Marina, Il doppio itinerario della scrittura: la donna nella tradizione letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1998; Sharon Wood, Italian women’s writing 1860-1994, Londra, Athlone Press, 1995; Rinaldina Russell, The Feminist Encyclopedia of Italian Literature, Westport, CT, Greenwood Press, 1997. Maria Marotti (a cura di), Italian Women Writers from the Renaissance to the Present. Revising the Canon, US, Penn State University Press, 1996.