Dimenticate la bellezza che possono evocare le immagini della « Grande Mela » odierna. Il film della regista Lynnie Ramsay, You were never really here, ci immerge in una New York su cui la politica di Rudolph Giuliani non sembra avere avuto nessun effetto.

La megalopoli statunitense è immersa nelle tenebre. L’ombra dei suoi vicoli scuri e umidi nasconde delle realtà inconfessabili e insopportabili. Il silenzio notturno che avvolge i cunicoli, i vicoli ciechi e i quartieri ancora popolari di Harlem contrasta con la bolgia diurna del centro città: Manhattan, zeppa di automobili e di gente che cammina spedita, ignora i fantasmi che si muovono tra le sue strade, non immagina neanche gli scheletri che si nascondono nei suoi mille armadi.

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Lynnie Ramsay tallona i suoi attori ovunque, la sua cinepresa ci impone una serie di primi piani del viso insensibile di Joaquim Phoenix, di quello senile e lontano dal mondo di Judith Anna Roberts e di quello angelico e assente della giovanissima Ekaterina Samsonov. Queste immagini, che tentano di penetrare l’animo ermetico di personaggi forgiati dal dolore, contrastano con le scene riprese da delle telecamere di sorveglianza che, silenziosamente e a debita distanza, osservano il flusso di violenza che si svolge intorno a loro. Fuori dalle case dai colori spenti, dagli appartamenti dove si intravedono dei neon dai toni aciduli, si trova un mondo illuminato da un Sole caldo e rassicurante che ignora tutto dei drammi che la regista ci propone.

Se amate il cinema ambientato sulla costa orientale degli Stati Uniti, ritroverete le stesse strade percorse dal taxi scorsesiano di Travis Bickle, gli stessi interni malandati di Chi sta bussando alla mia porta [Who’s That Knocking at My Door] (1967), che contrastano con gli interni lussuosi e hichcockiani dei rappresentanti politici di questa città.

L’autrice, però, sceglie di mettere in evidenza, attraverso le sue carrellate o servendosi di scene filmate con l’aiuto di una steadicam, dei luoghi anonimi che condividono ben poco con le immagini stereotipate di una New York universalmente conosciuta. Chi può immaginare, per esempio, che a pochi chilometri da questo luogo fondato sull’acciaio e il cemento si trovino degli spazi naturali dalla vegetazione lussureggiante. Dopo un rito funerario, Joe si ritrova nelle acque di un lago deserto, avvolto da una luce metafisica che poco a poco si affievolisce, simboleggiando una vita (la sua) che sta gradualmente svanendo.

Il personaggio di Joe è interpretato da un fantastico Joaquim Phoenix, giustamente premiato con la palma d’oro come migliore attore durante la settantesima edizione del Festival di Cannes. L’attore ci propone la figura di un mostro dal viso inumano, che alterna attimi di calma piatta – durante i quali i movimenti del suo corpo sono impercettibili – a momenti di estrema violenza. L’equilibrio non gli si addice: in effetti, questo personaggio gioca costantemente con la morte, divertendosi a schivare un coltello affilato o praticando l’asfissia per gioco.

Joe è un « mostrum » che rimane costantemente invisibile. Il suo nome simboleggia l’anonimato, un’anonimia incarnata dal suo viso coperto da una folta barba che ne cancella i tratti.

Quest’essere è stato prodotto da una società che, malgrado le apparenze perbeniste, rimane estremamente violenta. Durante lo scorrere dei minuti, scopriamo che l’uomo ha vissuto un’infanzia disastrosa, segnata da un padre prevaricatore, a tratti brutale.

Le tecniche di combattimento da lui utilizzate ricordano quelle dei corpi speciali militari presenti in medio oriente. Durante una serie di flashback, Joe ripercorre suo malgrado degli attimi vissuti in questa zona geografica disastrata dalla guerra, attimi di cui sembra trattenere dei ricordi poco felici che lo hanno profondamente segnato.

Come se non bastasse, la sua mente ci mostra delle immagini di migranti senza vita all’interno di un camion frigorifero da lui guidato: il ritorno alla normalità dopo la guerra non è dunque stato possibile.

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La violenza e le ingiustizie hanno marcato a fuoco il corpo e l’animo di un essere diventato vittima del suo destino, che decide finalmente di giocare ad armi pari con la morte che da sempre lo circonda. L’uomo mette la sua rabbia a servizio di un’organizzazione oscura, e diventa la mano armata di istituzioni che ufficialmente negano la sua esistenza.

Il film, che si apre col dettaglio di una bibbia buttata in una pattumiera, lascia poco spazio alla speranza. Il messaggio di pace contenuto da queste scritture non sembra avere spazio in un mondo dove gli uomini si lasciano guidare dai loro istinti animaleschi più profondi. Dio è muto, assente: solo la Passione umana è ben presente. Joe porta una croce troppo pesante anche per le sue ampie spalle, ma non è il solo: la piccola Nina, schiava moderna, preda di lubrici aguzzini, tenta come può di sottrarsi a un universo privo di senso. La sua figura, simile a quella di una vergine profana, è macchiata dalle violenze sessuali che le impone la sua stessa agiata famiglia.

Il colore livido della sua pelle riflette la poca luce dei luoghi dove vive da reclusa, dandole l’aspetto di un ectoplasma. Il suo candore nasconde un abisso colmo di disperazione, il suo mutismo la rende enigmatica e a tratti inquietante.

Ci si domanda dunque se in questo mondo oscuro ci sia spazio per la speranza. La risposta è “nessuna speranza, o quasi…”. Infatti, tra le macerie di una società telematica, si nasconde ancora un germe di umanità. L’amore materno è l’unico che Joe conosce, il solo che lo tiene in vita. L’idea di una possibile amicizia sincera rende in quotidiano di Nina temporaneamente sopportabile. Alla luce di questi fatti, una domanda potrebbe sorgere spontaneamente: il rapporto che si crea tra questi due esseri darà luogo a delle vie d’uscita? Lascio voi liberi di giudicare.